Arlington, Virginia

Erano da poco passate le sette del mattino, e Philip Mercer si infilò un paio di calzoncini color kaki e raccolse una copia del Washington Post dallo zerbino. Il sabato mattina la via in cui abitava era tranquilla e silenziosa. Era scoppiata la famosa estate indiana di Washington, e l’umidità stava aumentando. Mentre rientrava in casa, sentì le gocce di sudore solleticargli i peli del petto.

A differenza delle altre case a schiera che costeggiavano la via, dove vivevano da tre a sei famiglie in spaziosi appartamenti, Mercer era l’unico occupante della sua, e l’aveva completamente modificata per trasformare quell’edificio anonimo nella sua casa. Il terzo anteriore della casa era un atrio alto tre piani dominato da una libreria di quercia al secondo piano e dalla camera da letto al terzo. Un’ampia scalinata saliva a spirale collegando i tre piani. La scala era stata recuperata da una vecchia canonica poco prima che venisse demolita e gli era costata quasi quanto un’automobile di lusso.

Mentre saliva al secondo piano, Mercer scorse i titoli del giornale. Attraversò la biblioteca e sorrise tra sé: anche se viveva lì da più di cinque anni, solo di recente aveva tolto dagli scatoloni la sua vasta collezione di libri e le copertine impolverate affollavano gli scaffali di legno. Per un attimo la poltrona da lettura rivestita in pelle lo invitò ad accomodarsi, ma Mercer la ignorò e raggiunse la stanza che chiamava “Bar”.

Quasi tutte le case avevano un soggiorno, mentre Mercer aveva un bar vero e proprio, con sei sgabelli allineati davanti a un bancone in mogano con tanto di barra poggiapiedi in ottone. I calici penzolavano dalla rastrelliera, e il retro del bancone riccamente intarsiato era più fornito dei locali del centro. L’aspetto era quello di un club privato per gentiluomini: moquette verde scura, lussuosi divani in pelle, stucchi e pareti rivestite in legno. Dato che le uniche finestre davano su uno stretto passaggio tra la sua casa e quella accanto, la sala era sempre immersa in una penombra che creava un’atmosfera intima e raccolta.

Fece scivolare il giornale sul bancone e ci girò attorno per accendere le luci reostatiche. La caffettiera elettrica aveva prodotto una pozione rovente talmente forte che il primo sorso gli fece storcere la bocca. Perfetto.

Inserì un CD di musica strumentale nello stereo accanto al frigorifero vintage e poi si sedette a sorbirsi la dose quotidiana di disastri, scandali, corruzione. La pagina della cronaca conteneva un conteggio degli omicidi che sembrava il risultato di una partita: Poliziotti 5 – Spacciatori 1.

Dopo circa un’ora aveva finito il giornale. Strappò la pagina dei cruciverba per il suo amico Harry, piegò il resto e lo lasciò sul bancone. Salì al primo piano passando da una scala di servizio. Buttò due focacce dolci nel tostapane che teneva nella cucina ancora nuova e andò nel suo studio.

L’arredamento era simile a quello del bar: legno, ottone e cuoio. Un’enorme scrivania dominava dal centro della stanza, occupata per un terzo dal computer e da svariate periferiche. Mentre entrava nelle stanza, Mercer sfiorò con la mano una lastra di kimberlite, una roccia azzurrognola, che teneva appoggiata su un tavolino. La kimberlite è la pietra madre di tutti i diamanti del mondo e quella lastra, un ricordo di una delle missioni di Mercer nelle miniere del Sud-Africa, era il suo portafortuna personale.

Il pezzo di metallo deformato che aveva recuperato in Alaska era chiuso nel primo cassetto della sua scrivania. Lo prese e tornò in cucina. Il tostapane aveva bruciato le focaccine facendole diventare dure come il marmo. Mercer le buttò nel bidone della spazzatura e tornò verso il bar. Tanto non aveva neanche fame.

Recuperò da dietro il bancone uno spezzone di rotaia del treno lunga una trentina di centimetri, insieme a una scatola da scarpe piena di barattoli di lucido per il metallo, stracci e altri aggeggi per la pulizia. Mentre si accingeva a lucidare il pezzo di rotaia con della lana di vetro imbevuta di lucido, scrutò con sguardo solenne il pezzo di metallo. Erano anni che usava il gesto ripetitivo della lucidatura come un mezzo per mettere a fuoco i suoi pensieri e concentrarsi su un problema specifico. Con il ritmo che stava tenendo, avrebbe sicuramente lucidato qualche chilometro di rotaia prima di riuscire a capire cosa poteva significare quella targa.

Era di acciaio inossidabile, lunga una trentina di centimetri e larga dieci. I bordi erano tutti slabbrati dalla violenta esplosione che aveva distrutto la Jenny IV. La stampigliatura “roger”, fatta con inchiostro nero, era l’unico elemento identificativo.

Prima di lasciare l’Alaska, Mercer si era fatto dare dalla guardia costiera l’elenco dei membri dell’equipaggio della barca da pesca. Non c’era nessuno che avesse un legame anche minimo con la barca che si chiamasse Roger. Valutò la possibilità che le lettere non fossero quelle di un nome proprio, ma non gli venne nessuna idea alternativa. E anche se non era un nome proprio, non riusciva a decifrarne il significato.

“E dai Rog” disse Mercer parlando con la targa. “Chi diavolo eri, e cosa stavi facendo a bordo di una barca da pesca con dei bagagli marchiati col tuo nome?”

Mercer passava la vita a risolvere enigmi. Accumulare indizi per scoprire dove la terra nascondeva le sue ricchezze minerali o interpretare dati per arrivare a indicare un punto e dire “Scavate qui” era il suo pane quotidiano. Viveva di sfide in cui milioni di dollari e centinaia di vite umane dipendevano dalla sua parola, ma doveva ammettere che il mistero del frammento di acciaio era al di là delle sue capacità.

Il telefono squillò, e il trillo invadente sparpagliò nell’aria i suoi pensieri. Guardò l’orologio mentre si avvicinava alla presa che si trovava all’estremità del bancone per ricaricare il telefono. Erano le dieci meno un quarto. Sicuramente era Tiny che gli diceva che era arrivato il Daily Racing Form e che doveva andare là, o forse Harry che gli ricordava di portargli i cruciverba.

Nessuno dei due.

“Parlo col dottor Philip Mercer?”

“Sì” rispose circospetto. “Chi parla?”

“Mi scusi se la disturbo a quest’ora e di sabato. Mi chiamo Dan Mac Laughlin. Sono il capo della polizia di Homer, in Alaska.” Era una voce profonda e un po’ roca, l’uomo sembrava provato.

“Cristo, non sono neanche le cinque del mattino da voi.”

“Temo che questa sia la fine di una lunga notte di merda e non l’inizio precoce di una bella giornata. Lei conosceva Jerry Small e suo figlio John? Guidavano una barca in affitto che si chiama Wave dancer.”

L’uso del verbo al passato non sfuggì a Mercer.

“Sa benissimo che li conoscevo, altrimenti non mi chiamerebbe. Come sono morti?”

“Mi dispiace per la domanda così brutale. Sono sfinito e alquanto scosso. Conoscevo Jerry da quando si era trasferito qui.”

“Dispiace anche a me, ispettore. Non volevo essere scortese. Cos’è successo? Un incidente con la barca?”

“Li ha trovati stamattina presto un vicino di casa che stava rientrando dal turno di notte alla fabbrica del pesce. Sembra che Jerry e John si siano fatti una bella bevuta a casa e che poi abbiano deciso di uscire a farsi un altro bicchiere. Sono svenuti tutti e due nel furgone di Jerry. Il mezzo era ancora in garage, con il motore acceso e la porta chiusa. È stato quello che ha incuriosito il vicino, il rumore del motore acceso. Beh. Pensiamo che il gas di scarico li abbia fatti fuori tutti e due.”

“Oddio” sospirò Mercer.

“Il motivo per cui la chiamo è che dai registri della guardia costiera risulta che lei era a bordo della barca a noleggio quando Jerry ha trovato la Jenny IV. Questo significa che lei è una delle ultime persone ad averli visti vivi. Sembra che abbiano litigato, erano pieni di lividi. Jerry aveva tutti e due gli occhi pesti e la bocca di John era piuttosto malconcia. Come le ho detto, è un pezzo che conosco Jerry, e lui e John andavano d’accordo, più della maggior parte dei padri con i loro figli, per cui questa lite violenta mi sembra piuttosto insolita. Mi chiedevo se non ci fosse stato qualche accenno mentre erano a bordo, discussioni, litigi, roba del genere.”

“No. Sembravano andare d’amore e d’accordo. Il ritrovamento del relitto ci ha scosso un po’ tutti, ma non hanno litigato.” Mercer era sinceramente scioccato dalla notizia di quella zuffa tra Jerry e John. Non aveva mai sospettato che avessero tensioni familiari di quella portata, anche se li conosceva da poco. “Mi dispiace, ma non so come aiutarla. Me ne sono andato da Homer il giorno che abbiamo trovato la Jenny IV. Forse potrebbe contattare il cugino di Jerry all’UCLA. È rimasto con Jerry un altro paio di giorni dopo che io sono partito.”

“Aspetterò ancora qualche ora, è ancora un po’ prestino da queste parti.” Mac Laughlin rimase in silenzio. Sembrava che avesse voglia di parlare dell’accaduto, tirar fuori quello che sentiva riguardo la morte del suo amico, ma si trattenne. “Non la tratterrò oltre, dottor Mercer, grazie per la sua disponibilità.”

“Di niente, ispettore. Mi dispiace per la perdita che ha subito.” Mercer chiuse la comunicazione e fece un respiro profondo. Si appuntò mentalmente di chiamare Howard Small, più tardi, e di fargli le sue condoglianze. Fissò lo sguardo nel vuoto per qualche istante, ricordando Jerry e suo figlio, la loro battuta di pesca e la scoperta di quel relitto da brividi. Gli erano entrambi simpatici. Uomini onesti, lavoratori, sinceri. La loro morte era un’orribile tragedia.

Mercer scrutò il pezzo di metallo che teneva tra le mani. Si chiese se ci fosse un qualche collegamento tra quelle morti e quel frammento, ma abbandonò subito l’idea. Aveva imparato molto tempo prima che il caso giocava brutti scherzi. Sapendo che non sarebbe più riuscito a concentrarsi, salì a cambiarsi per poi uscire e incontrarsi con Tiny e Harry.

Tiny, il cui vero nome era Paul Gordon, era il proprietario di uno sfigatissimo bar a qualche isolato dalla casa di Mercer. Il sabato Tiny apriva prima, per Mercer e Harry White, i suoi migliori clienti, così potevano farsi un paio di bicchieri in santa pace e studiare il racing form per le corse del pomeriggio di Belmont Park. In passato era stato un fantino promettente, ma aveva avuto le ginocchia fracassate dagli scagnozzi della mafia delle corse perché non aveva voluto truccare una corsa. Ciononostante Paul si divertiva ancora a seguire le corse di cavalli come poteva e gestiva le scommesse per una quarantina di ragazzi ad Arlington e dintorni.

Mercer aveva scoperto il bar il primo giorno che era arrivato ad Arlington. Si aspettava di trovare un gorilla gigante dietro il bancone e invece aveva trovato un piccoletto, di nome e di fatto. Era alto un metro e quarantacinque e pesava quarantacinque chili, e si era fatto montare una speciale pedana dietro il bancone per poter servire i clienti senza troppe difficoltà. Quando Mercer spinse la porta di vetro per entrare, Tiny era già curvo sul form.

Il bar puzzava di birra stantia e di mozziconi di sigaretta, e anche se Paul usava litri di disinfettante, quel puzzo non se ne andava. C’erano un paio di tavoli vicino al lungo bancone, mentre il retro era occupato da separé con panche rivestite in finto cuoio. La carta da parati si stava staccando e qua e là erano appese foto di eventi sportivi con cornici da quattro soldi. Accanto alla cassa stavano in bella mostra le foto di Tiny con la livrea di seta, che riceve la stretta di mano piena di gratitudine dei proprietari dei cavalli e il vincitore sempre accanto a lui. Tiny aveva una cinquantina d’anni, ma la sua statura e il suo volto rugoso lo facevano somigliare a un antico gnomo dei boschi.

Harry White, invece, era antico sul serio. Prossimo agli ottanta, Harry sembrava essere perennemente sul punto di morire, ed era stato così da quando Mercer lo conosceva. La sua faccia era talmente segnata dal tempo che sembrava accartocciata su se stessa. Il corpo di Harry era alto e diritto ma sembrava prosciugato, come se un tempo fosse stato molto più robusto, e ora la pelle gli stava addosso come un vestito troppo abbondante. Le mani sembravano fatte di legno, ricoperte da una pelle di carta velina chiazzata di marrone. Ma nonostante il suo aspetto decrepito, era tutt’altro che fragile. Sfoggiava una virilità ancora esuberante, e i suoi occhi erano le finestre azzurre di una mente acuta prodiga di battute caustiche. Aveva una voce cupa che rimbombava coma una raffica di cannonate. Forse era per la differenza di età o forse proprio per sfidare quella differenza che Harry era il migliore amico di Mercer.

“Era ora che ti facessi vedere. Dove cazzo sono i miei cruciverba?”

“Perché non te lo compri da solo il giornale, lurido spilorcio?” Mercer lanciò il foglio piegato sul bar proprio davanti a Harry.

“Ma sentitelo, Paperon de Paperoni, lui il giornale se lo può comprare tutti i giorni.”

In effetti, Harry riceveva una dignitosa pensione dalla Potomac Electric Company. Inoltre, aveva da poco ricevuto dal governo una discreta somma come indennizzo per la perdita della gamba destra, una ferita che aveva subìto cinquant’anni prima. Anche se Mercer era al corrente della faccenda e aveva contribuito a fargli ottenere l’indennizzo, Harry gli aveva chiesto di non parlarne mai.

Harry prese al volo la pagina di giornale,la aprì con cura e impugnò la penna. “Com’è andata in Alaska?”

Mercer osservò Harry e sorrise. Sotto quella pellaccia di coccodrillo si nascondeva un vero amico. “Ci siamo divertiti, ma è successa una cosa allucinante.”

Raccontò la storia del ritrovamento della Jenny IV, senza risparmiare i dettagli. Né Tiny né Harry riuscirono ad aiutarlo con un’idea sulle origini della targa di acciaio, ed entrambi dubitavano che la morte di Jerry e John potesse essere in qualche modo collegata.

Tiny versò un Bloody Mary per Mercer e per se stesso e depositò un Jack Daniels con Ginger ale davanti a Harry. Mentre Harry fumava una Chesterfield dietro l’altra borbottando sul suo cruciverba, Mercer e Tiny studiarono il giornale delle corse, assegnando gli handicap alle quattordici gare della giornata con la concentrazione di un chirurgo che sta tentando di salvare la vita di un paziente. Analizzarono minuziosamente tutte le informazioni, ignorando i numeri che ritenevano poco importanti, moltiplicandone altri applicando misteriosi sistemi ma alla fine, come accadeva quasi sempre, decisero d’istinto. Tiny era molto più esperto nel valutare il pedigree dei cavalli, l’abilità dell’allenatore e la formula di Beyer sulla velocità, ma si inchinava davanti all’innata capacità di Mercer di individuare i vincitori basandosi esclusivamente sul suo istinto.

Per tutta la mattinata Tiny ricevette telefonate dai suoi clienti abituali e raccolse le scommesse e le quotazioni che riceveva da un amico che lavorava all’ippodromo. Alle undici e mezza avevano finito di assegnare gli handicap all’ultima corsa. Harry stava ancora facendo le parole incrociate, ma ormai gli mancavano solo un paio di definizioni.

“Merda!” esclamò disgustato. “Sono bloccato.”

“Cosa ti manca?” chiese Tiny.

“Sei lettere, la seconda è una a, composizione musicale nuziale di Mendelssohn.”

“Lagna” disse Mercer senza alzare gli occhi dal form.

“Ha detto sei” commentò Tiny guardandolo. “È ‘marcia’, la marcia nuziale di Mendelssohn. Hai presente, quando entra la sposa, ta ta ta taaa…”

“Sì, giusto. Credevo che l’avesse composta Mendel” disse Harry mentre scriveva la risposta.

“No, Gregor Mendel è stato il pioniere della genetica, quello che nell’Ottocento aveva fatto tutti quegli esperimenti con i piselli.”

“Davvero? Sono sempre stato convinto che la genetica l’avesse inventata Mandelbrot.”

“Falso. Benoit Mandelbrot è il fondatore della geometria frattale” spiegò Tiny.

“E allora chi cazzo era quello che ha inventato la tavola periodica?”

“Quello era Dimitri Mendeleev” rispose Tiny.

Mercer guardò di traverso i suoi amici.

“Dio, mi fate venire i brividi quando fate così.”

Mentre la mattinata scivolava verso il pomeriggio, i clienti del sabato iniziarono ad animare il bar. Venivano lì per le corse. Erano tutti sopra i cinquanta, e indossavano invariabilmente abiti vecchi di trent’anni. Erano la prova vivente dell’autenticità degli stereotipi. Mercer era più giovane di almeno quindici anni, ma si sentiva perfettamente a suo agio. Tra scapoli c’era una complicità speciale che andava oltre l’età e lo status sociale. Era un sollievo intrattenersi in conversazioni che non ruotavano sempre e solo attorno ai problemi dell’interlocutore.

A Belmont la giornata trascorse velocemente: l’ultima corsa si era conclusa poco dopo le quattro di pomeriggio. Tiny pagò le scommesse ai vincitori e poi finalmente si concesse un drink, il primo dopo il Bloody Mary del mattino. Harry White aveva continuato a bere whisky come se fosse stato reduce da un incontro degli alcolisti anonimi, ma non sembrava subirne gli effetti. Mercer era passato all’acqua gassata ed era sobrio.

“Che fai stasera Mercer?” chiese Tiny, sciacquando i bicchieri nel lavello del bar.

Quel lavaggio rimuoveva l’odore del liquore, ma i bicchieri non ne uscivano esattamente puliti.

“Stasera mi impacchetto in un bel vestito da pinguino.”

“Cena formale?”

“Mi risparmio la cena, ma dopo c’è un open bar.”

“Open bar?” sospirò Harry invidioso.

“Lo so, ti piacerebbe…” sorrise Mercer.

“Cosa si festeggia?” chiese Tiny.

L’inaugurazione di una nuova banca dei cervelli, chiamata Johnston Group, sponsorizzata nientemeno che da Max Johnston, il proprietario della Petromax Oil. È un gruppo di scienziati, economisti e ambientalisti impegnati a studiare il modo per mettere in pratica la politica energetica del Presidente.

“E tu farai parte di quel gruppo?” chiese Harry mentre apriva il secondo pacchetto di sigarette della giornata.

“No, ma conosco Max Johnston da un paio d’anni e ho trovato l’invito nella cassetta della posta quando sono tornato dall’Alaska.”

“ Sempre impegnato a frequentare gente ricca e famosa, eh?” lo prese in giro Harry. “Ma quanto vale questo Johnston?”

“Cristo” disse Mercer alzando gli occhi al cielo.

“Possiede per intero la Petromax Oil e controlla la fondazione Johnston, istituita da suo padre, quello che aveva creato la Petromax. Un paio di miliardi di dollari direi, forse di più.”

“Fammi sapere se ha una figlia nubile.” Dopo una pausa di riflessione Harry aggiunse: “Cazzo, per tutti quei soldi mi va bene anche una nonnetta sdentata e incontinente. Giuro che non farei storie.”

“Magari la trovassi” disse Tiny, “così potrai pagarmi un po’ dei tuoi conti sospesi.”

Harry gli lanciò uno sguardo innocente.

Mercer scoppiò a ridere. “Devo andare. La cena è alle sei e il ricevimento è alle otto e mezza. Voglio essere il primo ad arrivare al banco del bar.”

Si avviò lentamente verso casa. La giornata si rivelò essere più mite di quanto si aspettasse e sembrava che l’umidità fosse tenuta a bada dalle nuvole minacciose che si ammassavano verso est. Il pensiero di Jerry e John Small era scivolato via e si era ridimensionato. Provava un grande dispiacere per loro, ma era stata la loro stessa stupidità a ucciderli. Gli dispiaceva soprattutto per la madre di John, ovunque fosse. Nessun genitore riesce a tollerare di sopravvivere ai suoi figli.

I genitori di Mercer erano morti entrambi nel Congo belga durante l’insurrezione del Katanga. Rimasto orfano, era stato allevato dai nonni paterni nel Vermont e aveva saltato a piè pari le difficoltà dell’adolescenza, perché il suo desiderio di seguire le orme di suo padre e diventare un ingegnere minerario era stato più forte di qualsiasi velleità di ribellione. Non riusciva a immaginare cosa avrebbe potuto portare un padre e un figlio a venire alle mani. Evidentemente qualcosa li aveva spinti ad azzuffarsi, e le conseguenze erano state fatali. Come aveva detto Mac Laughlin, erano tutti e due ubriachi.

Mentre girava la chiave nella toppa, Mercer drizzò le orecchie, come se avesse sentito una voce. Infatti sentì di nuovo la voce di John Small, in piedi vicino a suo padre a bordo della barca. Mercer gli aveva appena offerto una birra e il ragazzo aveva rifiutato scuotendo la testa. “No, grazie, quest’anno sono il capitano della squadra di basket e forse riesco a vincere una borsa di studio.”

Gesù, John non beveva.

Mercer attraversò la casa di corsa, sfiorando la kimberlite mentre passava, come se fosse una mezuzah ebraica. Si sedette sulla sua sedia e chiamò l’operatore che dava le informazioni telefoniche. Dopo qualche minuto gli passarono l’ufficio di polizia di Homer.

“Sono Dan Mac Laughlin” rispose l’ispettore. Sembrava meno provato rispetto al mattino, ma dalla sua voce si percepiva ancora la stanchezza.

“Ispettore Mac Laughlin, sono Philip Mercer, ci siamo sentiti stamattina a proposito di Jerry e John Small.

“Salve, dottor Mercer.” Mac Laughlin sembrava molto sorpreso di risentirlo. “Come posso aiutarla?”

“Lei mi ha detto che erano tutti e due ubriachi, giusto?”

“Dall’autopsia è risultato un tasso alcolico nel sangue superiore a 0,2 in entrambi. Erano completamente sbronzi.”

“Ispettore, John Small non beveva” disse Mercer con aria trionfante.

Mac Laughlin si aspettava una rivelazione sconvolgente, e la sua voce lasciò trasparire il suo disappunto. “Dottor Mercer, il fatto che fosse minorenne non significa che non bevesse. Siamo in Alaska, quassù le cose sono un po’ diverse. Anch’io mi bevo una birra con i miei figli nel fine settimana.”

“Non intendevo questo. John ha parlato della sua squadra di basket e di come non intendesse giocarsi la possibilità di prendere una borsa di studio. Avevamo appena trovato due cadaveri a bordo di una barca bruciata e lui ha rifiutato una birra. Quella visione avrebbe convinto anche un veterano degli alcolisti anonimi a ricominciare a bere.”

Mac Laughlin rimase in silenzio per un minuto. C’era solo il crepitìo della linea del telefono a dire che non aveva riattaccato. Quando parlò, lo fece con un filo di voce, lentamente, e intanto metabolizzava l’informazione ricevuta. “Il migliore amico di mio figlio gioca in quella squadra. Hanno fatto tutti la promessa di non bere fino alla conclusione della stagione. È un modo per tenersi carichi e concentrati sull’obiettivo. Cosa diavolo significa?”

“Che John ha infranto la sua promessa, o che c’è qualcosa che non quadra e sono pronto a scommettere che ha a che fare con la Jenny IV. È riuscito a contattare Howard Small a Los Angeles?”

“No, non ancora, ma ho lasciato un paio di messaggi. Sicuramente mi richiamerà stasera o al più tardi domani.”

“Mi dica una cosa, ispettore, cosa ne è dello scafo della Jenny IV?”

Mac Laughlin rimase in silenzio qualche istante prima di rispondere. La risposta che stava per dare non gli piaceva affatto. “È stata affondata dalla guardia costiera il giorno dopo il ritrovamento da parte di Jerry. Per legge, gli spettavano i diritti di salvataggio, ma poiché il proprietario è morto nell’incendio, non c’era nessuno intenzionato a ricomprarla e non c’era niente che valesse la pena recuperare. Perciò Jerry l’ha fatta rimorchiare al largo dalla guardia costiera per farla affondare.” Fece un’altra pausa e poi aggiunse quasi in tono di scuse: “I relitti attirano i pesci e piacciono molto ai pescatori.”

“Qualcuno ha ispezionato l’interno della barca?” chiese Mercer speranzoso.

“No, temo di no. Se n’è andata così come l’avete trovata, allagata fino al bordo libero.”

“Merda.” Mercer sapeva di essere arrivato a un punto morto. “Beh, mi dispiace di averla disturbata, ispettore.”

“La ringrazio per aver chiamato, dottor Mercer, e se può consolarla, sappia che la gente muore ogni giorno nei modi più stupidi. Non c’è motivo per dare a questa storia più peso di quello che ha.”

Quando riattaccò, Mercer sapeva che Mac Laughlin non avrebbe abbandonato il caso, e neanche lui.

Nel bar, il rimasuglio di caffè nella caffettiera si era prosciugato trasformandosi in uno strato denso e nero che avrebbe potuto essere usato come solvente industriale. Lo sorseggiò cautamente mentre la sua cena si squagliava nel microonde. Qualcosa legava la Jenny IV a Jerry e John Small. Non erano morti, erano stati assassinati. Ne era certo. Aveva solo bisogno di un colpevole, di un movente e di qualche prova.